Vesak 2004
Nel 2004 il Vesak è stato celebrato in contemporanea nei vari Centri per testimoniare la presenza delle comunità buddhista nel territorio Italiano. In molti dei Centri aderenti all'UBI si sono svolte celebrazioni religiose, convegni di studio e momenti di festa ed apertura dei Centri alla cittadinanza locale. A livello nazionale l'UBI ha organizzato una celebrazione, in collaborazione con la Consulta delle Religioni del Comune di Roma, la Rete dei Centri Buddhisti dell'Italia centrale e la Facoltà di Studi Orientali (Università di Roma La Sapienza).
Celebrazione nazionale a Roma
Celebrazione al KUNPEN LAMA GANCEN - Milano (dal14 al 16 Maggio)
Celebrazione alla Comunità Bodhidharma - Lerici (23 Maggio)
Celebrazione al Tempio Buddhista ZENSHINJI di SCARAMUCCIA (23 Maggio)
Celebrazione al CENTRO SAKYA - Trieste (26 Maggio)
Celebrazione al CENTRO MAITRI - Torino (29 Maggio)
Celebrazione al CENTRO VAJRAPANI - Bosentino (TN) (29 Maggio)
Celebrazione all'ASSOCIAZIONE SANTACITTARAMA (30 Maggio)
Celebrazione al CENTRO KALACHAKRA (30 Maggio)
Celebrazione al CENTRO BUDDHISTA DELLA VIA DI DIAMANTE KARMA CIO LING (30 Maggio)
Celebrazione all'ISTITUTO ZEN SOTO SHOBOZAN FUDENJI (30 Maggio)
Celebrazione a IL CERCHIO VUOTO (30 Maggio)
Celebrazione alla COMUNITA' DZOG-CHEN (3 Giugno)
Celebrazione al CENTRO MANDALA (6 Giugno)
Consulta delle Religioni del Comune di Roma,
Unione Buddhista Italiana
Centri Buddhisti dell'Italia centrale
Celebrazione
della festività del Vesak
20 maggio 2004
Ore 17.30: Celebrazione religiosa da parte delle diverse tradizioni buddhiste
Alle ore 18.30 in collaborazione con la Facoltà di Studi Orientali - Università di Roma
"La Sapienza"
seguirà una tavola rotonda sul tema:
Violenza e responsabilità individuale Una prospettiva buddhista
Saluti:
Franca Eckert Coen – Consulta delle Religioni
Raffaele Torella – Facoltà di Studi Orientali
Raffaello Longo– Presidente Unione Buddhista Italiana
Relatori:
Rev. Giuseppe Jiso Forzani (Ufficio Zen Soto Europa)
Roberto Mander (Rete di Indra di Roma)
Ven. Paljin Tulku Rimpoce (Centro Mandala di Milano)
Prof. Francesco Sferra (Università di Napoli)
CENTRO STUDI MAITRI BUDDHA
IL NICHILISMO DELL’OCCIDENTE
Potrebbe apparire strano che il tema di questo incontro, Uscire dal nichilismo, venga proposto da parte buddhista. Strano perché proprio il buddhismo è stato accusato di essere portatore di una visione della realtà di tipo nichilistico. Le ragioni di questa accusa, che, prima di essere occidentale, è tipica delle scuole non buddhiste dell’India, sono abbastanza evidenti. Il buddhismo afferma la convinzione che le cose non hanno un sé, ovvero, come si dice nel Mahayana, sono vuote di natura intrinseca.
Che la Vacuità sia tutt’altra cosa dal nichilismo, ma che quest’ultimo possa scaturire da una scorretta interpretazione della Vacuità, è detto con molta chiarezza da Nagarjuna.
‘La dottrina della Vacuità, quando viene erroneamente compresa, può portare alla rovina gli ignoranti, poiché tramite questa comprensione errata costoro sprofondano nel pantano del nichilismo, negando così ogni fenomeno. Inoltre, sempre a causa della loro scorretta interpretazione della Vacuità, questi folli, che hanno l’orgoglio di sentirsi intelligenti, cadono rapidamente nell’inferno dell’Ininterrotto Dolore…’ (Ratnavali)
Ovviamente questo discorso avrebbe un valore alquanto limitato se il suo scopo fosse scagionare il buddhismo da un’accusa. Si dà però il caso che il nichilismo, come attestato da una più che autorevole letteratura filosofica, è un problema dell’occidente. Si tratta allora di vedere, e questo potrebbe essere il senso di questo seminario, quale contributo il buddhismo potrebbe portare rispetto al problema del nichilismo occidentale.
Il concetto di nichilismo ci è presentato, nell’ambito del pensiero occidentale, innanzitutto dalla filosofia di Nietzsche.
Per capire il senso di questa filosofia dobbiamo pensare che tutta la grandezza di cui l’uomo è capace consista in una condizione di entusiastica accettazione della vita, in cui la gioia e il dolore si intrecciano indissolubilmente e il senso della vita stessa non è dato ma liberamente creato. Questa condizione, che Nietzsche identifica con quella degli eroi della tragedia greca antica, è però corrosa da una sorta di cospirazione ordita dai gruppi sacerdotali, in conseguenza della quale il valore della vita è progressivamente negato.
Si avvia un processo di decadenza da cui emerge l’uomo occidentale moderno, le cui tappe fondamentali sono costituite dall’avvento del platonismo, con la scoperta che il mondo vero non è quello dei sensi ma un altro mondo soprasensibile che si apre dietro di esso, e l’affermazione del monoteismo ebraico-cristiano, che diffonde la visione platonica tra le masse e si fa garante di un senso della vita e della realtà univocamente dato.
Ma una catastrofe incombe: la morte di Dio. L’uomo occidentale moderno, scivolando lungo la china della decadenza, ha talmente indebolito le sue forze vitali che neppure credere in Dio gli è più possibile. A questo punto Dio si rivela per quello che è sempre stato, cioè la maschera che ricopre il nulla, e l’uomo scopre di aver perduto ciò che dava un senso alla sua vita.
Viene alla luce quel veleno che da tempo corrompe l’uomo occidentale: il nichilismo, cioè la convinzione che la vita non abbia alcun senso.
A tale convinzione, di fronte all’impossibilità di un ritorno al passato, Nietzsche propone di rispondere con un coraggioso attraversamento che ne muti il segno. Propone, anziché subire passivamente la distruzione dei valori in corso, di collaborare attivamente a essa; di trasformare il nichilismo da passivo in attivo, aprendo una strada che conduca al trascendimento della condizione umana come noi la conosciamo, cioè alla volontà di potenza e al superuomo.
Tralasciando ogni considerazione e giudizio sul senso storico della filosofia di Nietzsche, la strada che essa ha aperto è una strada lungo la quale l’interrogarsi sul nichilismo è diventato assolutamente determinante.
La piena consapevolezza di ciò si deve alla riflessione di uno dei grandi filosofi del novecento, Martin Heidegger.
Per Heidegger il nichilismo costituisce la struttura profonda che dirige il cammino dell’occidente. Ma la sua radice consiste in un oblio dell’essere che è fin dalle origini dettato da ciò che Nietzsche erroneamente esaltava, cioè la volontà di potenza.
Già da Platone e poi con Aristotele, ovvero con la metafisica antica, si costituisce infatti un discorso sull’essere che lo riduce a ente, cioè a realtà definibile e controllabile dall’uomo. Anche quando l’ente per eccellenza è Dio, si tratta in realtà del modo in cui viene garantito l’ordinamento dell’ente nella sua globalità. Quando poi il mondo moderno capovolge la metafisica oggettivistica antica in una metafisica del soggetto, quello che era implicito diventa esplicito: nell’epoca del completo oblio dell’essere la terra viene assoggettata dalla volontà di potenza, che si manifesta nella tecnica dispiegata.
Tra coloro che hanno sviluppato, sia pure in diverse direzioni, la riflessione di Heidegger, vi sono due filosofi italiani di importanza mondiale: Gianni Vattimo ed Emanuele Severino.
Il presupposto da cui muove Vattimo è che la modernità si sia costituita sul fondamento di strutture forti, in primo luogo un senso della verità come ordinamento oggettivistico del mondo. Ebbene, queste strutture, che hanno le loro radici nella tradizione metafisica, hanno un carattere intrinsecamente autoritario e comportano un inevitabile carico di costrizione e di violenza sugli individui.
Il nichilismo è dunque il processo, coincidente con la secolarizzazione, attraverso cui tutto ciò entra progressivamente in crisi e si dissolve. La morte di Dio, nel senso in cui ne aveva parlato Nietzsche, vuol dire la fine del senso autoritario della verità, e con ciò anche il tramonto della modernità. Si apre un’epoca, il postmoderno, in cui la verità si costituisce nel gioco delle interpretazioni e quindi nel dialogo tra i soggetti, e ciò consente di fondare un’etica della tolleranza e della condivisione.
Il senso del nichilismo, nella prospettiva di Vattimo, è dunque positivo e addirittura la morte di Dio consente paradossalmente di reincontrare il cristianesimo. Quest’ultimo infatti, liberandosi dell’involucro metafisico, può riscoprire il suo senso più originario e irrinunciabile, cioè la carità.
E’ del tutto evidente che il pensiero di Vattimo guarda in una direzione del tutto diversa da quella di Heidegger. Mentre quest’ultimo cerca un possibile oltrepassamento della tradizione occidentale, Vattimo sembra volerla compassionevolmente salvare. Nella sua prospettiva infatti il cristianesimo coesiste con la secolarizzazione, anzi l’uno rinvia indissolubilmente all’altra, e questo nesso consente di rifondare i valori laici della modernità: la libertà, la tolleranza, il socialismo.
Quando si accusa Vattimo di non consentire una solida fondazione dell’etica, bisognerebbe fare i conti con l’intero disegno che il suo pensiero traccia e andarne piuttosto a indagare le premesse. Premesse che potrebbero essere soltanto in apparenza le stesse di Heidegger.
Sia consentito in questa sede formulare una breve riflessione al riguardo, da una prospettiva forse non usuale.
Quando Vattimo parla del nichilismo come di una trasformazione del senso dell’essere, tanto più una trasformazione che genera un’etica compassionevole, da un punto di vista buddhista non si può evitare di pensare alla Vacuità. Se non che quest’ultima si definisce come negazione non affermante, distinguendosi in ciò dal nichilismo che è negazione affermante.
La distinzione è essenziale: la Vacuità non può essere nichilismo perché, negando l’esistenza intrinseca di ogni realtà, nega anche quella del nulla; mentre il nichilismo è una negazione incompleta, che non riesce a evitare di affermare l’esistenza del nulla.
La distinzione presuppone inoltre una differenza fondamentale di orientamento: in particolare la negazione non affermante presuppone un piano di esperienza superiore a quello concettuale, che è il piano propriamente spirituale o della mente illuminata. La negazione deve essere completa perché presuppone quel piano e rinvia a esso, cioè apre le porte alla sua comprensione sgombrando il terreno dalle costruzioni mentali che ne impediscono l’accesso.
Il nichilismo non presuppone invece quell’orizzonte: si limita a negare l’esistenza intrinseca delle cose ma rimanendo inconsapevolmente attaccato a esse. Quindi non è liberazione ma solo in fondo disperazione.
Quando dunque Vattimo parla di liberazione dalle strutture della metafisica, prendendoci la libertà di intendere che con questa parola si intenda la convinzione in una esistenza intrinseca della cose, intende davvero il nichilismo oppure qualcosa che ha più propriamente il senso della Vacuità?
Nel primo caso: come è possibile la liberazione? Nel secondo: perché allora parlare di nichilismo?
Lo scenario dischiuso dalla filosofia di Severino appare a prima vista abbastanza simile a quello di Heidegger: il nichilismo è il senso stesso della storia dell’occidente, le sue radici sono nella metafisica greca, nella quale si nasconde una volontà di dominio che poi diventa del tutto manifesta con la tecnica moderna.
La differenza è però in ciò che propriamente definisce il nichilismo: che per Severino è la convinzione che le cose siano soggette al divenire, cioè escano dal niente per poi farvi ritorno; il che significa che esse in fondo sono niente.
Questa convinzione è il vero presupposto del dominio tecnologico: le cose sono manipolabili in quanto oscillano tra l’essere e il niente, ma questo stesso oscillare genera l’angoscia di cui gli abitatori dell’occidente sono preda. Dalla quale un tempo hanno cercato rifugio in seno agli immutabili, entità concepite come al di fuori del tempo: tra i quali emerge il Dio cristiano, il quale però, in quanto creatore, che cioè fa uscire il mondo dal niente, rinvia a sua volta al nichilismo e lo alimenta. Quando infatti l’uomo moderno si emancipa da Dio, non fa che riappropriarsi di quella facoltà di trarre le cose dal niente che la tecnica pare conferirgli.
Ma Severino pensa che questa convinzione, che le cose escano e rientrino nel niente, e che quindi alla fine siano niente, costituisca la più profonda follia, quella che è all’origine di ogni altra come pure della violenza da cui gli uomini si sentono minacciati. Da questa follia si esce accettando che le cose siano come il senso comune non riesce più a cogliere, cioè eterne. Solo a questa condizione gli abitatori dell’occidente possono uscire dal nichilismo ed entrare nel cerchio della Gioia.
Il pensiero di Severino, malgrado una diffusa notorietà, rappresenta un enigma e una sfida per l’uomo contemporaneo. Appare però molto vicino all’insegnamento buddhista, in quanto rivolto non a giustificare il modo comune di pensare ma a trascenderlo.
Per chi pensi che a qualificare il buddhismo sia l’idea dell’impermanenza delle cose, il collegamento non può che apparire fuori luogo; mentre non lo è se si coglie ciò a cui propriamente l’insegnamento buddhista conduce. Come nelle parole del Buddha: ‘Vi è, o monaci, il non-nato, il non-divenuto, il non-fatto, il non-composto. Monaci, se questo non-nato, non-divenuto, non-fatto, non-composto non fossero, non si conoscerebbe modo di sfuggire a questo nato, divenuto, fatto, composto.’ (Udana)
In conclusione mi permetto di proporre una definizione. Cioè propongo di pensare che il nichilismo si definisca sulla base di una duplice convinzione: che non vi è un senso delle cose se non quello che vogliamo attribuire a esse; e che la morte è la fine di tutto. Diciamo che il primo aspetto diventa dominante nella civiltà occidentale moderna, mentre il secondo, senza essere sconosciuto ad altre culture, pare segnare profondamente la civiltà occidentale nel suo insieme.
Poiché questo secondo aspetto viene largamente sottovalutato, bisogna riconoscerne il fondamentale valore esistenziale. E’ del resto abbastanza evidente che il nichilismo è innanzitutto l’atteggiamento di chi, constatata l’impermanenza di tutte le cose, rimane impietrito di fronte a quella scoperta e le attribuisce carattere definitivo.
Ebbene, fin dall’epoca antica l’uomo dell’occidente, a partire da entrambe le sue radici fondamentali, quella greca e quella ebraica, ha profondamente sentito l’angoscia di essere sospeso sull’abisso nullificante della morte. Di qui il senso tragico dell’esistenza che lo caratterizza e lo differenzia dalle altre civiltà. Di qui la disperazione che lo tormenta e la violenza che pare essergli connaturata.
Da questo punto di vista il senso della filosofia greca potrebbe essere ancora tutto da scoprire.
Ad esempio non si può considerare secondario che la dialettica socratico-platonica abbia quale scopo dichiarato la confutazione dell’esperienza sensibile per far emergere la dimensione originaria della mente, che non è riconducibile a quella corporea e quindi neppure soggetta a perire. Così come non si può dimenticare che l’orizzonte della filosofia di Platone è determinato dalla fede nella rinascita e in una sorta di compito karmico che si sviluppa di vita in vita.
Bisogna forse tornare a Socrate e a Platone, al di là dell’immagine che di essi ci ha fornito Nietzsche. Uscire dal nichilismo è null’altro che uscire dalla caverna, secondo il noto racconto di Platone. Cioè uscire dalla prigione di convinzioni profondamente radicate nella coscienza, accedere a uno spazio mentale più ampio.
Quanto a Nietzsche, il suo pensiero costituisce certo un passaggio ineludibile per la coscienza moderna; ma ciò potrebbe essere significativo più dei problemi che la travagliano che non di altro. Il suo nichilismo è figlio di varie scissioni, in primo luogo quella tra la fede e il sapere.
Giova inoltre ricordare che il suo percorso prende le mosse dalla filosofia di Schopenhauer: e che quest’ultima è costruita su un’errata interpretazione del buddhismo. Non dico altro.
Claudio Torrero
Torino, 29 maggio 2004
CENTRO STUDI MAITRI BUDDHA
PENSARE L’ANNIENTAMENTO DELLE COSE
E’ PENSARE L’IMPOSSIBILE
Cari amici,
grazie di essere venuti stamattina a questa giornata di studio.
Pensare l’annientamento delle cose è pensare l’impossibile. Questo è il tema che voglio trattare con voi.
Ma prima di iniziare voglio leggervi una comunicazione diretta a tutti i buddhisti italiani, in occasione del Vesak, da parte del Concilio Pontificio per il Dialogo Interreligioso.
E’ il suo presidente, l’Arcivescovo Michael L. Fitzgerald, che scrive: ‘Cari buddhisti e cristiani, guardiamo insieme verso i bambini, guardiamo insieme verso i nostri bambini, che sono il futuro dell’umanità. Prego perché ognuno di voi possa passare una festa gioiosa e pacifica, questa festa del Vesak, della nascita, dell’Illuminazione e del Nirvana di Buddha, e con questa speranza di festa e di gioia i miei pensieri vanno subito ai bambini.’
C’è un poeta che dice: ‘Il bambino è il padre dell’uomo’. Aggiungo: ma l’uomo non sa quello che i bambini gli insegnano: lo stupore. Lo stupore che è fonte della creatività umana.
I bambini ci insegnano lo stupore, e dunque guai a chi corrompe un bambino. Lo uccide, perché uccide lo stupore. Cioè uccide quella sorgente di creatività che rende questa vita veramente umana.
Io sono d’accordo con l’arcivescovo Fitzgerald e sento con emozione questo impegno a lavorare per i bambini.
‘E’ nostra speranza che vi possano essere madri e padri che si impegnino in tutti i modi per trasmettere ai loro figli quei valori umani e religiosi autentici che danno il vero significato della vita. Vi sono bambini che non hanno mai conosciuto una famiglia, abbandonati, non amati alla nascita, rifiutati’. Il disamore della madre è infatti un’impronta indimenticabile, che segnerà tutta la vita.
Aggiungo ancora: oggi ci sono bambini in guerra, bambini che a dieci-dodici anni imbracciano il fucile e uccidono. Dove va a finire l’integrità di un bimbo? Questo è nichilismo, il nichilismo attuale. Come uscirne?
Dice ancora l’arcivescovo: ‘Noi cristiani e buddhisti non possiamo chiudere gli occhi davanti a queste tragiche situazioni e ognuno come può deve impegnarsi in questo compito di salvaguardare il futuro, cioè i bimbi’.
Come dunque uscire dal nichilismo? Vorrei proporvi una particolare riflessione.
State bene attenti, vi prego.
Si cominciò anni fa con la rottura di un trattato fra stati, qui vicino a noi, in Jugoslavia. Si disse: si può rompere questa confederazione, non succede niente. Non succede niente è il senso del nichilismo. In realtà invece qualcosa succede.
Poi venne l’idea che si potesse distruggere una comunità in seno a una città, perché tanto non sarebbe successo niente. Invece nuovamente qualcosa è successo. E così via fino ai bambini che tirano sassi ai carri armati e a quelli che lanciano il proprio corpo contro un avversario da distruggere.
Posso dire che vent’anni fa partecipai ad un convegno come questo, un convegno di studio sui rapporti tra scienza e buddhismo. Si parlava allora di ‘strutture del reale e dell’immaginario’. L’atmosfera era lieve.
Sono passati solo vent’anni, ma come lontano è quel mondo! Ora tutti noi siamo più tesi. La presenza del religioso si è fatta pesante, perché più forte si avverte il senso del nulla, cioè la perdita dei valori fondamentali.
Venendo quindi al tema che mi sono proposto: le cose si annientano veramente, come sembra che accada?
Pensare l’annientamento delle cose come condizione della loro produzione è il paradigma della nostra economia, dove si producono dei beni perché si consumino. Dice un filosofo: una società che tratta tutto il mondo non umano come un mondo da buttar via non tratterà anche se stessa come un’umanità da buttar via?
L’idea che si possa, per esempio, annientare una foresta per produrre soia e che non succeda niente è nichilismo. Infatti è impossibile che non succeda niente.
Si rifiuta di sottoscrivere il trattato di Kyoto pensando che non succeda niente? Ma è impossibile che non succeda niente.
Sto introducendo il mio tema.
Le cose sono l’apparire e lo scomparire dell’eterno. Quale eterno?
A questo proposito voglio ricordare Emanuele Severino. Quest’anno non siamo riusciti ad averlo tra noi, ma il prossimo ci riusciremo. Soprattutto se io interpreto erroneamente il suo pensiero, così verrà a correggermi.
Le cose dunque sono l’apparire e lo scomparire dell’eterno. Cioè dell’eterno esserci.
Il sole c’è anche dietro le nuvole, c’è anche quando non lo vediamo.
Il sorgere dipendente è come il sole, c’è anche dietro l’orizzonte, anche quando è notte.
Il cielo di notte è azzurro, non nero, perché c’è l’atmosfera (il cielo veramente nero lo vedono gli astronauti dallo spazio). E’ l’ossigeno che riceve i raggi del sole, trasformandoli in questa luminosità. La molecola d’ossigeno è un dipolo elettrico che vibra a quella frequenza, cioè la frequenza dell’azzurro: dunque anche l’azzurro cupo della notte è il sole.
Non c’è cosa che si perda tra infiniti specchi, nulla può accadere una sola volta, nulla è veramente precario, tutto è una metamorfosi e il gioco delle identità è il comparire e lo scomparire delle chiare apparenze.
Cito una frase di Platone: ‘Se un atto produce i suoi effetti anche a distanza di tempo, la sua momentaneità è solo apparente’. E ancora: ‘Le statue, con tutta la loro variegata bellezza, sono l’apparire e lo scomparire dell’eterno’. Cioè dell’eterno esserci.
Questo esserci è il sorgere dipendente: benigno, senza arresto, senza divenire, senza unità, senza molteplicità, senza andare, senza venire.
Per Buddha questo eterno è la fine del dolore.
Ebbene, il nichilismo nega proprio questo. Che è legge di natura, perché non c’è atto senza conseguenze.
Ma questo nichilismo riguarda anche Dio?
Parliamo di religioni.
Se Dio è morto tutto è possibile. Cioè dopo l’uccisione di Dio tutto è permesso. Così è l’Occidente di fronte ai suoi crimini.
Oppure Dio non è morto, e allora tutto è possibile. Cioè tutto è permesso verso chi ha ucciso Dio. Così è il Vicino Oriente di fronte ai suoi crimini.
Come uscirne?
Se Dio è nel mondo, questa è la mia conclusione, si fa mondo. Così non si va da nessuna parte.
Il fatto è, amici, che un nemico non lo annienti. Pensiamo a un evento di mille anni fa. L’esercito cristiano era vicino a Costantinopoli per andare in Terrasanta a liberarla. Accadde invece che si diede a saccheggiare Costantinopoli. Quel saccheggio, quel rancore, è ancora lì presente e vivo, dopo mille anni.
E’ vero o no? Non è così?
Le cose sono l’apparire e lo scomparire dell’eterno esserci. C’è sempre un effetto, niente scompare veramente. Ma tu pensi che le cose siano reali, così ti disperi quando scompaiono.
Se le cose sono reali, il conoscitore sarà altrettanto reale.
Ma se questa mente e questo cervello sono reali, così come reali sono gli oggetti di cognizione, questi ultimi e il conoscitore sono nulla perché prodotti per essere nulla.
Questo, secondo me, è il nichilismo, questa è la disperazione.
Se noi comprendessimo che tutte le identità sono immaginative costruzioni di un ego appropriatore, potremmo pensare che anche questa mente, in quanto sussiste nell’interdipendenza con questo o quell’oggetto, è vuota, quindi tranquilla e lieta. Ogni essere si esaurisce nell’esserci.
L’universale interdipendenza è dunque la comprensione che va incontro all’amore, perché all’amore si va incontro spogli di ogni separatezza.
Non c’è bisogno di ricercare: noi siamo il ricercatore e l’oggetto della ricerca.
Non c’è bisogno di aderire al vero: ci sono solo mezze verità.
Non rifiutare il falso: qualche volta c’è del vero.
Non è forse la libertà, anche da ogni natura, la condizione di una possibile etica? Questa è la prospettiva buddhista.
E’ corretto rimanere in ciò che non è sostanzialismo né nichilismo. Il sorgere dipendente non ha arresto, è come il sole, è benigno.
L’aspetto ordinario delle cose è duale. Questo determina ciò che di momentaneo, impermanente, illusorio cogliamo nelle cose. Il dolore è l’inquietudine che nasce dall’esperienza della dualità: cioè dallo spazio-tempo e da questa mente illusoria.
Quando l’ego è pacificato e cessa il dispiegarsi del pensiero discorsivo, si manifesta lo stato non prodotto, non divenuto, non composto, non fatto. Questo è l’altro aspetto della dualità: la cessazione del dolore.
Secondo la scuola dei logici buddhisti, questo stato naturale è permanente, in esso le visioni sorgono come una incontrovertibile inferenza, la visione diretta è vicina.
Quando i fattori volitivi sono del tutto pacificati, in quel silenzio l’aspetto assoluto di tutte le cose è visto come vacuità.
Questa vista diretta si apre nella solitudine del cuore. E non è un’illusione. Questa vista che produce stupore, stupore che afferra un enigma, è oltre il linguaggio, perché il linguaggio è affermazione di enti e la vacuità nega l’esistenza di qualsiasi ente.
La vacuità di cui parla il buddhismo è una negazione non affermante. Non dice che tutto è niente, ma che tutto quanto è prodotto non ha una natura propria.
In definitiva shunyata, cioè la vacuità, nega ogni nozione, anche quella di niente: per questo potrebbe essere il miglior antidoto al nichilismo.
Vuol dire che ente e modalità non sono separabili, come non è separabile il legno del tavolo dal tavolo. Che le parti di un oggetto non sono separabili dalle funzioni che l’oggetto assume in quella composizione, in quell’ordine nel quale le parti sono assemblate.
Questa è magia.
Da dove vengono le qualità che tanto ci attirano, in un oggetto composto? Non sono nelle parti e neppure al di fuori delle parti. Non è stupefacente quell’oggetto?
Si dice che questa esperienza, che trascende l’osservazione ordinaria, è il silenzio dei santi.
Nel silenzio della mente le ordinarie apparenze si dissolvono e il cuore si apre alla dimensione della libertà assoluta, uno stato libero dalle fissazioni di esistenza e non esistenza.
Quando diciamo che questa mente c’è, affermiamo che c’è in una relazione. Io ci sono in quanto sono qui con voi; ci sono e ci sarò. E’ permanente l’esserci. Tra il non essere, cioè il nichilismo, e l’essere, cioè l’assoluto che nega il divenire, c’è l’esser-ci.
La vita è questo esserci in cui si esaurisce l’essere.
Qual è il fondamento di questa dottrina? L’amore, che è l’essere nell’altro. Non c’è nessuna natura che divida i nostri destini.
Questa verità profonda, che secondo me è all’origine del sacro, noi la comprendiamo fin da bambini. Questa è un’altra ragione per cui il bambino è padre dell’uomo, come già detto all’inizio.
Supponiamo che ci sia qui vicino un muretto, e supponiamo di sapere che dietro a questo muretto ci sia un abisso. Noi stiamo tranquillamente seduti con i nostri amici a bere qualcosa, e vediamo un piccolo bimbo salire su questo muretto. Ebbene, abbiamo bisogno di riflettere per correre incontro a quel bimbo a fermarlo perché non cada? Non sentiamo il suo destino come nostro?
Forse è questo l’imperativo categorico di cui parlava Kant.
In ogni caso questa è l’etica, e scaturisce dall’esserci, dal sorgere dipendente.
Ma per negare queste ordinarie apparenze, come le nuvole, per comprendere che il sole c’è anche dietro le nuvole, occorrono tre cose: distaccarsi dall’ego, distaccarci dagli enti e distaccarsi anche da Dio, cioè dall’assoluto. Noi buddhisti diciamo: occorre distaccarsi anche dal desiderio di illuminazione.
Soltanto in un cuore così solo e deserto avviene il contatto con lo stato dell’esserci, la reazione che tutto comprende.
Il sorgere dipendente allora è visto nel suo aspetto creativo e benigno, senza arresto, senza tempo, senza venire, senza andare, senza unità, senza molteplicità. Forse è davvero la fine del dolore.
Grazie.
Ven. Ghelong Thubten Rinchen
Torino, 29 maggio 2004